materia illuminata

Bruno Sacchi, l’architetto e la materia illuminata


Guido Gorla

Dopo le solite brevi esperienze che accomunano ogni neolaureato, mi affacciai in quel fienile carico di vissuto che era lo studio dell’architetto Bruno Sacchi in cui i disegni, caoticamente accatastati dappertutto, ricoprivano file interminabili di faldoni di ogni dimensione e colore: era il 1993 quando nacque la nostra collaborazione.
Bruno Sacchi era una figura imponente caratterizzata dall’inseparabile cappello di feltro a tesa larga sotto la quale portava la barba e i capelli lunghi.
Bruno Sacchi era curioso.
La scoperta dei dettagli che lo circondavano era una costante progettuale ed era nella realtà materica degli elementi che trovava ispirazione.
Come rovistava nelle scatole dei pastelli con cui colorava i suoi schizzi alla ricerca del colore giusto, così cercava nei luoghi gli elementi e i colori che avrebbe scelto per svelare un’architettura che considerava già presente, ma solo celata.
La scelta ricadeva sui materiali naturali grezzi, genuini, caratterizzati da una rudezza apparente che prediligeva all’artificiosità di alcune lavorazioni sofisticate. Era come se la sua preferenza per una gastronomia semplice delle ricette rurali radicate nella cultura arcaica si rispecchiasse nella scelta delle lavorazioni antiche.
Per lui fruire dell’architettura era una parte delle necessità primordiali dell’uomo come il cibarsi. Una pietanza risulta gustosamente gradevole se preparata modificando le materie prime a disposizione. Per l’architettura, come per il cibo, era la giusta scelta dei dettagli più semplici che ne esaltava le caratteristiche.
L’individuazione sapiente delle luci radenti accentuava la texture della materia che Sacchi plasmava come un artista che dona una nuova forma, una nuova vita.
Accostandosi sottovoce alle preesistenze, Sacchi ne sfruttava le potenzialità nascoste grazie ad una capacità intuitiva singolare che lo portava a rigenerare gli ambienti creando, con accostamenti inusuali, spazi che si compenetravano senza soluzione di continuità.
Nell’arco della ricchissima e lunga collaborazione con quest’uomo apparentemente così duro, talvolta aspro, ma dallo sguardo limpido che comunicava la sua onestà intellettuale, ho capito l’arte di quella ricerca silenziosa che lo caratterizzava.
Ed è così che negli anni ho scoperto la sua rispettosa dedizione verso l’elaborazione progettuale, vissuta con passione, coltivando la natura del progetto fino all’amore, la cura della realizzazione che seguiva con una presenza sul cantiere che risultava un’estensione progettuale dalle mille microvarianti in corso d’opera.
L’architettura era per lui una vera creazione artistica.
Le maestranze ammutolivano nell’ascoltare le sue osservazioni ed i suoi suggerimenti che spesso non collimavano con le soluzioni costruttive comuni, ma regredivano allo stato della materia, con travertini rugginosi tagliati a filo sega o legni non piallati.
Incomprensibili agli occhi degli operai, le longarine color rosso minio restavano a vista per celebrare la loro forza espressiva. Era difficile spiegare loro che sarebbero rimaste così a lavori ultimati.
Tagli di luce invadevano e destabilizzavano gli spazi precostituiti.
La sua architettura, talvolta solo in apparenza brutalmente rude, era, invece, lo specchio della sua anima infinitamente sensibile e ricercata.
Sorrido al pensiero di certe false novità che oggi talvolta vengono proposte come innovative e che invece sono state ampiamente già utilizzate da più di 50 anni con sapiente meticolosità da Bruno Sacchi che ha saputo continuamente rinnovarle facendone un fil rouge che accomuna tutte le sue creazioni.
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