torre e fienile

La torre e il fienile


Guido Gorla

Con Bruno si lavorava tra gli ulivi e i roseti, nello studio ospitato in un vetusto fienile dal pavimento di cemento, zeppo di faldoni scoloriti, di cataste di cartelle dai formati inusuali e di vecchi tavoli da disegno segnati da migliaia di fori di puntine. Sentivo il peso di quei minuscoli fori: ognuno di essi era la testimonianza che l’idea si era materializzata in un disegno, migliaia di disegni redatti prima del mio arrivo in quel mondo così lontano dai tecnicismi accademici a cui ero stato abituato. L’architettura fatta di intuizioni, talvolta di una semplicità disarmante, ma che lentamente prendevano corpo nel tratto di grafite per diventare infine creazioni progettuali articolate. Si disegnava a matita, anzi col portamine azzurro e poi si lucidavano le tavole a china con i rapidografi, con la pazienza e la manualità sconosciuta ai giovani architetti di oggi. Allora si facevano copie con l’eliocopiatrice che puzzava di ammoniaca e si tagliavano col taglierino, a mano. Agli sgoccioli del secolo scorso, con il prepotente progresso informatico che ormai bussava fragorosamente alle porte, Bruno continuava a vergare poetici schizzi dai tratti neri, su fogli di carta cipollina. Centinaia di pergamini restano a testimonianza di quella straordinaria capacità di sintesi grafica. Non di rado, dopo una mattinata di lavoro, Bruno si avviava, con il suo inseparabile cappello di feltro, all’attigua Torre di Sopra dove, nella sua bella cucina, preparava il pranzo. Travertino stuccato e lavagna levigata si intersecavano con motivi semplici e lineari nel pavimento e negli arredi, come un’eco agli affreschi trecenteschi che ornavano la sala da pranzo e le stanze della torre. La bicromia era spezzata da elementi in ferro verniciato di un essenziale rosso minio, identico agli infissi in ferro. Era forse nella convivialità gioiosa di quella cucina che si poteva intuire la sua sorprendente capacità di progettare per l’uomo, nell’incontro tra passato e presente. Amava cucinare piatti semplici, con ingredienti genuini, poco elaborati magari con tocchi di originalità: squisiti i suoi “spaghetti alle alici e gin” che faceva saltare in un'enorme padella, mescolandoli con un vecchissimo cucchiaio di legno, simbolo di una primordiale esperienza artigiana. Sapientemente miscelava gli odori raccolti nel suo orto-giardino con le verdure povere delle sue pietanze, così come nei progetti esaltava i materiali con accostamenti inusuali per un risultato di semplice armonia.
Le architetture, diceva versando il vino, “sono già lì” e l’architetto non deve fare altro che svelarle, coglierle e valorizzarne pazientemente le qualità intrinseche.
Nell’attesa che la caffettiera completasse il suo sommesso borbottio Bruno ripensava ai dettagli e insieme discutevamo sulle soluzioni e analizzavamo nuove idee sulle possibili varianti.
Lo ricordo alla perenne ricerca dei migliori abbinamenti cromatici complementari alle movimentate elaborazioni dei piani geometrici. Studiava le sezioni degli edifici che progettava sviscerandone la spazialità e rielaborandone i volumi che si compenetravano senza soluzione di continuità.
Non sempre era facile intuire le forme nelle sue sezioni ‘tecniche’ spesso sovrapposte tra loro e compenetrate ai prospetti, ma, all’improvviso, grazie ad uno schizzo in prospettiva, tutto diventava chiaro e quello che era sempre stato lì sotto i miei occhi, incomprensibile intreccio di segni, si ergeva nella mia mente come già edificato. Prendevano corpo il ferro la pietra, il legno, il cemento in quella stravagante alchimia che solo l'artista sapeva creare con naturale semplicità.
È stata questa continua tensione alla scoperta delle architetture da svelare che, in una collaborazione durata quasi vent’anni, non solo mi ha aiutato nella loro comprensione, ma anche a maturare una riflessione sul processo creativo che si e estesa, come un lento e impercettibile passaggio del testimone, da quello del mio maestro al mio personale.
Lavorando a fianco di Bruno anche nella creazione del collegamento della cripta di San Pancrazio con l’esterno, ho assistito, ancora una volta, alla nascita dell’intuizione artistica celata sotto la grazia di un segno e l’armonia di un tratto.

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